Il mio Pantani

Il ricordo più forte del “mio” Pantani non è quello del Giro e del Tour del 1998. Quelle vittorie, conseguite con una facilità quasi disarmante, non suscitarono in me particolari entusiasmi, anzi quello fu l’anno in cui seguii meno Marco e il ciclismo in genere.
Conservo invece con enorme affetto altri momenti della sua carriera, che credo abbiano lasciato la traccia del vero Marco Pantani.

Un ricordo particolare è legato al Giro di Svizzera e al Tour de France del 1995…
In quel periodo, fatte le dovute proporzioni, il destino ci aveva riservato il medesimo trattamento: io costretto a casa per una frattura rimediata in gara e lui poco più che convalescente dopo un investimento che gli era costato il Giro d’Italia.
Torno spesso con il pensiero a quello strano periodo, trascorso tra noiosi pomeriggi ravvivati da furtive pedalate per le vie del quartiere all’insaputa di tutti, soprattutto dei miei genitori. Nei giorni dei grandi tapponi di montagna mi rivedo in camera, gli occhi incollati al teleschermo, in attesa che la sagoma inconfondibile di Marco schizzi fuori dal gruppo…
E infatti eccolo, anche oggi! Uno scatto, due, tre, gli altri ad arrancare, ancora un allungo, fuori le palle, è il momento di andare, via via, a tutta! Che stile, che ritmo, ma da dove salta fuori questo ragazzo? E’ un grande, quando parte non ce n’è per nessuno!
Che emozioni, via il cappellino, scatto, controscatto, rapportino, giù un dente, via così!
Che sensazioni fantastiche! Quanto orgoglio, quanta ammirazione, un ciclismo fatto così, tutta fantasia e improvvisazione, fa girare la testa!

A quel Tour uno dei suoi tanti, miracolosi recuperi. Un giorno di montagne Marco cade ai primi chilometri e batte un ginocchio. Si rialza, ma è in fondo al gruppo, la squadra lo assiste, sembra che ancora una volta la sorte ce l’abbia con lui. Il medico gli cura al meglio la ferita, i cameraman infieriscono con primi piani sulla gamba gonfia e la testa china, sembra tutto finito.
Deluso, medito di spegnere la televisione e sfogare la mia rabbia con un’altra pedalata di quelle che mettono a rischio la guarigione della clavicola, mi sento un toro in gabbia!
Una mezz’ora e inizia la prima salita… e lui schizza via un’altra volta! Sale a denti stretti, ma gli altri sono già indietro, il gruppo si frantuma, c’è riuscito ancora una volta!
Mai vista una cosa del genere! Salto sulla sedia, è incredibile! Vai, Marco, ancora!

…Altri ricordi… Giro d’Italia 2003, diciottesima tappa. Marco sembra aver ritrovato sé stesso dopo l’umiliazione di Madonna di Campiglio 1999, portato via dai Carabinieri come un delinquente. È un giorno di pioggia e grandine, di quelli che puoi mettere a rischio un’intera carriera per una caduta. Discesa. Davanti Garzelli, dietro Pantani. Il primo va a terra, giù anche Marco. Rumore, urla, dolore. Garzelli riparte subito; anche Pantani si rialza, ma è pieno di botte. Nella bufera si ferma il suo DS, lo guarda, sembra non ci sia più nulla da fare.
Marco impreca per il dolore e la rabbia, e ne ha motivo. Il destino lo vuole ancora una volta a casa, a guardare gli altri in TV. “No, no!” -urla. “No, vado avanti!” “Ma sei matto?” gli chiede il DS. “Sei tutta una botta, dove vuoi andare?” Marco è confuso, sporco, intirizzito, il gruppo sta velocemente sfilando, ecco il momento per dimostrare di essere un uomo, il mito rialzarsi ancora una volta, lo sguardo del pirata lanciare l’ennesima sfida. Riprende, con dolore, rabbia e delusione, ma giunge al traguardo e sarà alla conclusione di Milano, tre giorni dopo, a denti stretti. In quel Giro, durante la tappa con arrivo alle Cascate del Toce, con uno scatto dei suoi Marco aveva regalato a tutti noi un nuovo, impressionante urlo di gioia, l’ultimo di una carriera costellata di orrendi infortuni, ma anche di imprese esaltanti. L’ultimo acuto della sua vita, poi, il 14 febbraio 2004, la notizia della sua morte.
Rimpianto, tristezza, rabbia, ma non rassegnazione. Il suo ricordo nel mio cuore, per sempre.

Marco Pantani è un esempio. Per tutti. Per come si è rialzato mille volte.
Come dopo l’incidente alla Milano-Torino del 1995, lui a terra, la tibia spezzata che lacera pelle e muscoli e se ne sta lì, esposta all’aria, mostruoso ammonimento a non toccare mai più la bicicletta. Ma lui, poche settimane dopo, è già in riabilitazione, in piscina, bardato come un astronauta, per riprovarci. Ci avrebbe impiegato diversi mesi ma ce l’avrebbe fatta, una volta ancora. E poi ancora, altre volte, tante, troppe forse anche per lui.

…Il presente…
Muscoli inermi, orride pance inflaccidite da decenni d’ufficio che bestemmiano il suo nome, volti invidiosi che sentenziano di doping e successi non meritati.
Nonostante la persecuzione mediatica e giudiziaria subita, non esiste una sola prova che Pantani facesse ricorso al doping e una perizia dopo la sua morte ne ha escluso un utilizzo sistematico.
In ogni caso una dose di EPO non fa un campione e non potrà mai dare il coraggio di soffrire. Perché quando sei a tutta, quando i muscoli friggono, quando ogni fibra del tuo corpo è impegnata allo spasimo e ti implora di smetterla, devi avere due palle grosse come una casa per non uscire dal gioco, lasciarti sfilare e cedere il posto a chi è più duro di te.
Se sei un grande, invece, rilanci, e rilanci ancora, con la schiuma alla bocca come i cavalli, fuori di ogni metafora. E non c’è doping che tenga.
Ti volti, scruti la situazione, guardi negli occhi il tuo avversario, e via ancora.
Non conta se in quel momento sei in gara o in un letto d’ospedale; tiri fuori tutto te stesso e l’impossibile diventa possibile.

Un giorno, sul forum ufficiale di Pantani, qualcuno ha scritto delle parole che mi sono rimaste dentro: “Prima Coppi, poi Bartali, ora Pantani. Chissà che scintille sulle salite del cielo! Dio ne avrà da divertirsi!”

Grazie, Marco Pantani.
Non ti dimenticherò.

Sul Carpegna, la montagna di Pantani…

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