Itinerari in Trentino Alto Adige
UN SALTO NEL PASSATO
Il Rio delle Foglie (Bletterbach) ha scavato uno spettacolare canyon nelle rocce dell’altopiano di Aldino-Pietralba (Regglberg) ai piedi del Corno Bianco. L’origine del canyon è recentissima: l’intaglio risale a solamente quindicimila anni fa. Nonostante a qualcuno possa sembrare un intervallo di tempo enorme, chi ha dimestichezza con le ere geologiche sa che non si tratta nient’altro che di un battito di ciglia nella vita del pianeta Terra.
Proprio intorno a quindicimila anni fa l’enorme quantità di ghiaccio e neve accumulatasi nel corso dell’ultima era glaciale (Würmiano) iniziò lentamente a sciogliersi. I fiumi e i torrenti che ne scaturirono poterono esprimere con una tale potenza la propria azione erosiva da incidere pesantemente il territorio alpino, trasportando i detriti strappati alle montagne per decine, centinaia di chilometri, fino a colmare definitivamente l’antica depressione marina che oggi chiamiamo Pianura Padana.
Uno dei tanti ruscelli originatosi dal disgelo dei ghiacci würmiani fu proprio il Bletterbach, che in poche migliaia di anni aprì una delle più spettacolari “finestre temporali” d’Europa. Risalendo il suo percorso si visitano alcune delle più importanti tappe della storia geologica altoatesina.
Il fondo del canyon è accessibile superando qualche piccola difficoltà che consiste nel discendere i ripidi versanti che lo separano dall’altopiano. L’escursione e il viaggio nel tempo iniziano dal fondo del canyon; ci troviamo circondati da potenti fiancate di porfido risalenti al periodo Permiano, quasi 300 milioni di anni fa. Manca ancora molto all’avvento dei dinosauri. Quando queste imponenti coltri di materiale vulcanico si depositarono, non esisteva nulla della nostra regione: boschi, monti e valli. Il Trentino Alto Adige, così come tutta l’area centro-europea, era un deserto sconvolto da violentissime eruzioni. Non esistevano grandi apparati vulcanici: il materiale lavico fuoriusciva prevalentemente da fenditure nella crosta terrestre sotto forma di grandi nubi di cenere incandescente e gas che davano luogo al fenomeno delle “nubi ardenti”, in grado di spostarsi a centinaia di chilometri orari fagocitando tutto ciò che incontrano sul proprio cammino. Le grandi fiancate rocciose che vediamo si formarono proprio grazie a ripetuti episodi di questo tipo. Perché si potesse depositare un tale spessore di materiale dovettero succedersi decine e decine di eventi, intervallati da pause che potevano durare secoli o millenni, durante le quali piante e animali tentavano faticosamente di riguadagnare i territori perduti. Trascorsero in questo modo circa venti milioni di anni. Rare ma di valore paleontologico inestimabile sono le tracce di vita di questo periodo. Esse si limitano a qualche impronta lasciata sulle poche zone umide da un piccolo rettile, il Tridentinosaurus Antiquus, una figura nota tra i paleontologi di mezza Europa.
Si prosegue in leggera salita lungo il greto del Bletterbach, la cui portata dipende molto dalle eventuali precipitazioni dei giorni precedenti. Ogni passo compiuto è un avanzamento nel tempo. Cento, mille, diecimila anni… si prova una strana sensazione nel padroneggiare intervalli di tempo tanto grandi. Dopo poche centinaia di metri percorse tra le strette fiancate porfiriche la valle si allarga e, superata una cascatella, si entra in un ambiente diverso. Qui la roccia predominante non è più il porfido, ma il prodotto della sua erosione e della successiva deposizione per opera del vento e dell’acqua: l’Arenaria della Val Gardena. Ci troviamo dunque in corrispondenza di rocce appartenenti a un periodo successivo, in cui le eruzioni erano ormai terminate e l’ambiente era costituito da un’arida pianura. Il mare non era lontano, ma il sole implacabile disseccava rapidamente gli specchi d’acqua rimasti isolati, pietrificandone il fondo che talvolta è stato in grado di custodire fino a noi suggestive collezioni di pesci fossilizzati. Non mancavano corsi d’acqua, probabilmente a carattere stagionale, che hanno lasciato tracce delle loro ondate di piena con caratteristiche increspature della sabbia giunte in forma fossile fino ai nostri giorni. Non è difficile osservare in questo luogo formazioni rocciose composta da sabbia e detriti cementati orientati nel senso della corrente. Nelle Arenarie di Val Gardena è possibile ritrovare anche le tracce di una vivace attività biologica: fossili di foglie, rami, tronchi, radici, spore oltre che una serie di impronte di animali di rettili di grossa stazza danno l’idea di un certo popolamento di un territorio comunque poco ospitale.
Si prosegue ancora nel greto ormai allargatosi, tra pareti che nella loro parte superiore sono composte da una formazione rocciosa che annuncia un ulteriore salto nel tempo. Siamo alla fine dell’era paleozoica, circa 250 milioni di anni fa, quando il mare inizia a penetrare con maggior decisione nel territorio altoatesino. Si forma un ambiente di bassi fondali, punteggiato da lagune che nei periodi più caldi lasciavano spazio a distese di gesso e salgemma, oggi evidenziate nelle venature biancastre delle pareti attorno al canyon. Ma il vero padrone di questo tempo è il Bellerophon, un gasteropode diffusosi a tal punto da dare il proprio nome alle rocce del periodo: la Formazione a Bellerophon. Non era certo l’unico organismo che aveva trovato dimora in quelle acque calde e stagnanti. Pesci, granchi, coralli, spugne e ricci di mare preistorici popolavano il fondo, incrementando dopo la loro morte le maestose bancate calcaree che vediamo intorno.
Alziamo lo sguardo, ed ecco sopra di noi l’alba di una nuova era, quella dei dinosauri, che si apre con il periodo Triassico. Il colore della roccia si fa più vario: si tratta della Formazione di Werfen, depositatasi tra 245 e 235 milioni di anni fa. È il chiaro indizio che il mare prende piede, si fa più profondo, cancellando il precedente ambiente lagunare. Cambiano di conseguenza anche gli animali che lo abitano e che appartengono a un contesto prettamente marino. Un lamellibranco, Claraia, si diffonde a tal punto da divenire “fossile guida” per i paleontologi che studiano questo periodo. Così, mentre in altre zone del pianeta i rettili diventano i padroni assoluti, l’Alto Adige è una specie di paradiso tropicale fatto di mare e atolli corallini degni di un dépliant pubblicitario.
Avanziamo ancora e siamo all’ultima stazione del nostro viaggio nel tempo. Si prospetta dinnanzi a noi l’era dei grandi rettili, i dinosauri. In corrispondenza della grande cascata la roccia appartiene a un antichissimo condotto vulcanico che più di duecento milioni di anni prima della nostra nascita venne a sconvolgere la tranquillità del fondale marino.
Superato l’ostacolo si cammina su resti di enormi bancate di corallo, spugne e alghe calcaree che 220 milioni di anni fa prosperavano in questo territorio. I blocchi biancastri che vediamo sparsi ovunque sono costituiti di una roccia chiamata Dolomia del Serla. Le frequenti tracce che rinveniamo su di essa appartengono a una particolare varietà di alga, chiamata Diplopora, che a questi tempi costituiva vere e proprie praterie sottomarine. Il guscio calcareo di cui era provvista ha favorito, nel corso di un tempo lunghissimo, l’accumulo di uno spessore di enorme potenza. Di Dolomia del Serla, infatti, è composta anche la cima del Corno Bianco, ottocento metri più in alto!
Negli ultimi anni attorno a questo monumento naturale sono stati creati due centri per i visitatori da dove partono, nel periodo estivo, gite ed escursioni guidate. Per ulteriori informazioni: https://www.bletterbach.info/it/

Lo spettacolare canyon scavato dal Bletterbach nella tenera Arenaria di Val Gardena. (Foto Carlo Bonatti)
FUNES, UNA VALLE (QUASI) TRANQUILLA
Quando scrissi questo pezzo, a fine anni 90, arrivai a definire “tranquilla” la Val di Funes. Al giorno d’oggi in Alto Adige il rombo dei motori giunge fino a 3000 metri di quota e quindi di tranquillo non esiste più nulla. Però la Valle di Funes, con tutto ciò che offre, è meno frequentata rispetto a altre aree dolomitiche. E fortuna che è così! Di zone cementificate e massificate nella nostra provincia ce ne sono fin troppo e purtroppo molti di noi, con i classici pellegrinaggi domenicali (ovviamente in compagnia dell’insostituibile scatola di latta) non fanno altro che svilire una terra un tempo bellissima. Fortuna, dicevo, che esistono ancora luoghi relativamente integri come la Valle di Funes. Una serie di paesini sparsi lungo la vallata, poche migliaia di abitanti, un po’ di più in piena estate, quando si affollano di turisti. Ma quali meraviglie in compenso! La valle è una miniera di fossili e minerali. Tappa obbligata è Tiso (in tedesco Tisens), un paesino arroccato sul versante orografico destro, che ospita un interessante museo mineralogico (https://www.mineralienmuseum-teis.it/it/benvenuti.html). A est del centro abitato si trova una zona ricchissima dei famosi geodi, piccoli scrigni di roccia che contengono fino a sette differenti minerali. Tra questi spiccano l’ametista, i cristalli di quarzo e l’agata, con i suoi variopinti anelli concentrici. Bisogna avere un po’ di fiuto per riconoscere la pietra giusta, aprirla con delicatezza e scoprirvi il contenuto. Capita spesso di rimediare solo una delusione, ma capita talvolta di rinvenire una bellissima associazione di cristalli multicolori.
Ma in Val di Funes si può anche andare per fossili. Da segnalare è il greto di un piccolo torrente, spesso asciutto, ma che dopo forti rovesci scorre impetuosamente, smuovendo una gran quantità di materiale. La sua incisione segna profondamente gli strati rocciosi della Formazione di Werfen, che risale alla primissima parte del periodo Triassico, quasi 250 milioni di anni fa. Allora quel territorio era il fondo di un mare basso, interessato periodicamente da forti tempeste che depositavano sulla riva una gran quantità di fauna marina, soprattutto lamellibranchi, le classiche “conchiglie” che vediamo ancor oggi camminando lungo una spiaggia. In determinate situazioni tali resti venivano rapidamente coperti da altri sedimenti e finivano in una specie di cassaforte temporale che solo oggi sta per essere gradualmente scardinata. Tipico fossile di queste rocce è quello del lamellibranco Claraia Clarai, una specie che ebbe vita lunga e prosperosa nel Werfeniano. Non è per nulla difficile, risalendo il greto del torrente, ritrovare in rocce verdastre, facilmente sfaldabili in lastre, le tracce di tale animale. Per raggiungere la zona fossilifera basta svoltare a destra (direzione Zanser Alm) dopo aver superato il paese di Santa Maddalena (una decina di chilometri circa dal bivio in Valle d’Isarco). Si prosegue per circa 1200 metri fino a un tornante verso destra, dove c’è spazio per parcheggiare. Il greto del torrente è a pochi metri da noi, lo si raggiunge prendendo il sentiero che dal tornante risale il pendio. Il terreno appare decisamente rimestato, sembra incredibile che un corso d’acqua quasi sempre asciutto possa scatenarsi in tale modo quando viene alimentato dalle piogge. Il consiglio è di fare attenzione ai serpenti durante le ricerche, ma devo anche precisare che nel territorio della provincia di Bolzano la raccolta e l’estrazione di minerali sono soggette ad autorizzazione, mentre sono vietate la raccolta e l’estrazione di fossili. Uomo avvisato…

Fonte immagine: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3b/Ametyst-geode.jpg
VULCANODONTI A ROVERETO
Questo itinerario, approntato solo a metà degli anni ’90, tocca uno dei più interessanti ritrovamenti europei risalenti al periodo Giurassico, nel pieno dell’era dei dinosauri. Da Rovereto si prende la strada che sale alla campana della Pace, sul versante orografico sinistro della valle dell’Adige. Superatolo, si prosegue per un paio di chilometri di salita stretta e piuttosto tortuosa fino a giungere, in prossimità di una curva a sinistra, alla strada forestale chiusa da una sbarra, che indica l’inizio del percorso a piedi.
Siamo a poco più di cinquecento metri di altitudine e il panorama sulla Val Lagarina e sul Baldo è davvero spettacolare. Di fronte a noi l’altopiano che ospita il lago di Cei in cui l’occhio del geologo esperto può riconoscervi parte del letto di una antichissima valle forgiata da un antenato del fiume Adige. Parcheggiare l’auto lungo la strada non è agevole, si rischia di intralciare il sia pur scarso traffico presente; conviene lasciarla poche centinaia di metri più a monte, dove vi è un comodo parcheggio; ancor meglio raggiungere Rovereto con un mezzo di trasporto alternativo, per esempio il treno, partendo dalla stazione e salendo a piedi o in bici. L’itinerario che permette di visitare le orme si snoda nell’ambito del versante del monte Zugna, interessata in epoca storica da un imponente scivolamento di ampie superfici di strato verso valle che ha dato origine al particolarissimo ambiente dei Lavini di Marco, citati per la loro particolarità anche nella Divina Commedia di Dante Alighieri.
Alcuni grandi pannelli, che identificano i punti più interessanti su cui soffermarsi, descrivono compiutamente l’ambiente giurassico nel quale dinosauri di vario genere lasciarono impresse le tracce del loro passaggio.
A quel tempo, circa duecento milioni di anni fa, gran parte della futura Italia nord-orientale si trovava al di sotto del livello del mare. Da poco era iniziato il Giurassico, il secondo periodo dell’era mesozoica, la grande era dei dinosauri. Lunghi cordoni di sabbia e piccole aree emerse delimitavano ampie lagune, tra le quali si aggirava un gran numero di rettili, chi per brucare, chi per procurarsi carne fresca. Tra i primi spiccava senza dubbio per diffusione il genere Vulcanodontidae, dinosauri “prosauropodi”, ovvero precursori dei grandi erbivori come i Brachiosauri e gli Apatosauri che nei successivi milioni di anni avrebbero dominato il mondo. Ai secondi appartengono le impronte tridattili più piccole che raccontano di passi nervosi e mortali agguati contro i quali poco o nulla potevano i tranquilli erbivori.
Il continuo espandersi del Mare della Tetide fece di queste zone un ambiente precario, che in poche centinaia di migliaia di anni si trovò a essere invaso dal mare aperto. A quel punto terminò inevitabilmente anche la breve storia giurassica dei Lavini di Marco.
L’itinerario, della durata di un’ora abbondante, prevede alcuni passaggi impegnativi per la forte pendenza, anche se non rischiosi. L’anello si compie in un contesto naturalistico del tutto particolare, in cui rade conifere si alternano a un sottobosco tipicamente semiarido. Un itinerario che, per quello che offre, non sarà dimenticato.

Passeggiata di duecento milioni di anni fa…