Luigi Credaro, dedizione d’altri tempi

Ringrazio la sign.ra Letizia Flaim, che con le sue osservazioni mi ha permesso di revisionare questo pezzo. La sign.ra Flaim, insegnante di scuola media e appassionata di storia locale, è autrice di diverse ricerche sulla realtà altoatesina durante il periodo fascista. Qui, per esempio, un suo studio sulle Katakombenschulen, le lezioni segrete di lingua e cultura tedesca che alcuni coraggiosi sudtirolesi portarono avanti durante il Ventennio. Le osservazioni della sign.ra Flaim mi hanno permesso di mettere meglio in luce la figura di Luigi Credaro dando all’articolo un taglio un po’ più critico e sollevando alcuni dubbi.

Leggendo uno dei (sempre troppo pochi, purtroppo!) libri di storia in mio possesso mi sono imbattuto in un personaggio singolare, insegnante, uomo di stato e filosofo, ma soprattutto esempio di dedizione e rettitudine che difficilmente si trovano al giorno d’oggi. Un aspetto controverso della sua biografia è legato proprio alla mia terra Natale, l’Alto Adige all’epoca dell’occupazione fascista.
Si tratta di Luigi Credaro, nato a Sondrio nel 1860, anno di straordinari fermenti patriottici, da una modesta famiglia di agricoltori. Un personaggio poco noto, ma al quale la scuola e la cultura italiana devono moltissimo. La sua vita appare una pagina importante dell’Italia appena unita.
Credaro si laureò all’Università di Pavia in filosofia nel 1885 nonostante le mille difficoltà derivanti dalle umili origini: da studente, infatti, dovette dividersi tra gli studi ed i lavori nei campi ed egli stesso scrisse di essere entrato all’università “mal vestito, ma ben scarpato”. Dopo aver insegnato nei licei di Fano e di Sondrio, nel 1889 si recò a Lipsia per perfezionarsi in filosofia e psicologia sotto la guida di illustri maestri, tra cui Wilhelm Wundt, padre fondatore della moderna psicologia.
Tornato in patria, insegnò a Lucera e poi a Pavia, ove tenne la cattedra di storia della filosofia. Fu anche filosofo, pur non potendo essere paragonato a Croce o Gentile. Appartenne a quell’indirizzo culturale positivistico (contrapposto a quello idealistico), molto in voga agli inizi del Novecento, che metteva in rilievo il carattere pratico e la funzione sociale della scienza.
Erano anni di gravi tensioni politiche e sociali, culminate nei fatti del ’98 a Milano, quando il generale Bava Beccaris aveva preso a cannonate la folla in rivolta per il prezzo del pane, lasciando a terra qualche centinaio di morti. I cattolici erano bloccati dal non expedit di Pio IX, e le richieste di riforme socialiste venivano contrastate dal movimento liberal-moderato. Fu in questo clima che il giovane professore valtellinese venne eletto nel 1895 in Parlamento fra le file dei radicali nel collegio elettorale di Tirano.
Nel 1899 fu assessore all’Istruzione a Pavia, finendo così per dividersi tra l’insegnamento e l’impegno politico ed amministrativo con l’energico sostegno della moglie Elisa Paini.
Ben presto si rese conto però che la sua prima vocazione era la pedagogia, di cui divenne professore a Roma dal 1901 su proposta del filosofo Antonio Labriola; qui insegnò sino al 1935.
La sua avventura politica continuò con la carica di Sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel 1906 nel governo Sonnino, poi con quella di ministro della Pubblica Istruzione nel 1910 nel governo Luzzatti, incarico che verrà confermato anche nel successivo governo Giolitti nel marzo del 1911.
A lui e ad Edoardo Daneo si deve la riforma scolastica del 1911 con cui, oltre ad una serie di provvedimenti che diedero un forte impulso al mondo dell’istruzione, vi fu il passaggio delle scuole elementari dai comuni alla gestione statale. Questo provvedimento, pur limitato ai soli comuni maggiori per la durissima opposizione dei cattolici che si unì a quella dei socialisti e alle critiche di pedagogisti come Giovanni Gentile e Lombardo-Radice, permise l’accesso alla scuola anche alle classi più povere. In effetti l’analfabetismo in Italia passò dal 37% al 27% in soli dieci anni.
Il suo richiamo alla libertà d’insegnamento era riferito non tanto alla libertà dell’individuo, ma quella dello Stato liberale, la cui scuola deve essere laica. Le concessioni fatte al cattolicesimo appaiono, sotto questa luce, solo il tentativo di porre un argine al socialismo.
Nel 1913, in coincidenza con le prime elezioni a suffragio universale politico, socialisti e cattolici entrano prepotentemente nella vita politica italiana. Credaro rimane comunque a fianco di Giolitti come ministro della Pubblica Istruzione.
Vennero poi gli anni della guerra e la conseguente annessione del Trentino Alto Adige. Proprio in quelle zone, per la sua conoscenza dell’agricoltura di montagna e della lingua tedesca, il senatore Credaro fu inviato in qualità di Commissario Generale Civile per la Venezia tridentina dal nuovo presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. L’intenzione era quella di gestire la difficile convivenza tra i diversi gruppi etnici, ma furono per lui due anni difficili, attaccato dai cattolici, che gli rimproveravano l’affiliazione massonica e temevano per l’insegnamento obbligatorio della religione in Alto Adige, dai nazionalisti, che gli muovevano l’accusa di neutralismo, e dallo stesso Mussolini in Parlamento.
Devo precisare che, riguardo al periodo trascorso come governatore tridentino, fonti locali autorevoli (Flaim Letizia, Cossetto Milena) descrivono l’attività di Credaro come improntata ad un processo di “neo-colonizzazione” e italianizzazione dell’Alto Adige, peraltro in linea con la cultura imperante all’epoca. È chiaro che ciò causò discriminazioni e forzature nella cultura locale (per esempio l’inquadramento di famiglie mistilingui nel gruppo etnico italiano e l’obbligo di iscrivere i figli delle suddette famiglie alla scuola italiana) che mal si conciliano con il rispetto dei diritti delle minoranze, argomento ancor oggi scottante in Alto Adige.
È comunque evidente un certo disaccordo di Credaro con i metodi fascisti incarnati da Tolomei, tanto che nell’ottobre 1921, dopo la deplorevole “marcia su Bolzano”, Credaro cessava formalmente il suo incarico, rimosso a forza; due anni dopo, nel ’23, Giovanni Gentile lo allontanerà anche dalla carica di presidente del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione che ricopriva fin dal 1917.
Dopo il delitto Matteotti del 1924 la sua opposizione al fascismo divenne sempre più netta. Nel ’25 è tra i 51 professori che firmano la mozione di Benedetto Croce contro la riforma Gentile della scuola e nel ’29 attaccherà il Concordato dalle colonne della sua Rivista pedagogica sulla quale, ancora nel ’32, tre anni prima di lasciare l’insegnamento, ripubblicherà polemicamente la prolusione sulla libertà d’insegnamento pronunciata a Pavia nel novembre 1900 all’apertura dell’anno accademico.
Oltre alla sua storia politica e di insegnante va aggiunta la sua grande passione per l’agricoltura, soprattutto quella della sua natìa Valtellina; si interessò infatti dei problemi agricoli e forestali della provincia di Sondrio. Pubblicò inoltre numerose opere, in particolare su Immanuel Kant e su Johann Friedrich Herbart e si profuse in altre attività a sfondo culturale, come la fondazione della “Rivista pedagogica” nel 1907.
Senza dubbio basterebbe questo per farne un personaggio di rilievo della storia italiana; ma ciò che mi ha spinto a dedicargli un posto d’onore sono alcune sue ammirevoli dichiarazioni in occasioni pubbliche o private, idee ed espressioni modernissime che mettono l’uomo e la sua formazione culturale alla base della civiltà. Dichiarazioni che, con gli occhi disillusi di chi segue le vicende politiche italiane del Duemila, sembrano davvero appartenere ad un altro mondo.
Inizierei con “Chi apre una scuola, chiude una prigione”, pronunciato nel febbraio del 1900 in Consiglio comunale a Pavia, quando era da pochi mesi assessore all’Istruzione della città. Bellissima interpretazione del potere della cultura in contrapposizione alla miseria del “gossip” propinato quotidianamente dai mass media moderni.
Citerei poi Dina Bertoni Jovine, direttrice didattica, scrittrice, giornalista, pedagogista, docente universitaria ed autorevole studiosa della scuola italiana, che definì quella di Credaro in età giolittiana “la punta più avanzata, in senso democratico, della legislazione italiana”; non dimenticherei nemmeno che nella legge di riforma scolastica da lui voluta vi erano provvedimenti a favore della riabilitazione dei portatori di handicap psichici o fisici, argomento che ancor oggi fatica a trovare spazio nei dibattiti parlamentari, e della diffusione delle scuole magistrali, per la formazione dei maestri.
Durante il Congresso dei radicali nel 1909 ebbe a dire: “Noi dobbiamo essere il partito della cultura, o non essere”. Oggi, molto più che la cultura, i nostri politici curano l’apparenza.
Nel 1909, al IV Congresso del partito radicale, Credaro aveva detto: “Senza educazione popolare, senza cultura seria, universale non può sussistere governo democratico. Questo è vero per tutti i tempi, questo è tanto più vero pel nostro tempo e pel nostro Paese”.
In una lettera alla moglie scrisse: “La vita non è un paradiso, è un dovere; e l’unico paradiso che esista è la soddisfazione della coscienza, il sentimento della propria dignità, della propria indipendenza”. Parole pesantissime, da urlare in faccia ai tanti voltagabbana che popolano il sottobosco parlamentare dei nostri giorni.
Terminerei con le parole del grande intellettuale, scrittore e docente Augusto Monti, maestro di Bobbio, Gobetti, Pavese, Massimo Mila e Leone Ginzburg, che nel 1965 nel suo ultimo libro “I miei conti con la scuola” così descriveva la Valtellina: “Dovunque ci portarono in quegli anni i nostri banchetti, o le gite scolastiche, o le amichevoli escursioni, in ogni borgata quel che notavi giungendo in paese era, bella, nuova, moderna – eretta possibilmente di fronte alla chiesa -, la casa della scuola elementare; sussidi materiali, tutto, favori d’ogni genere accordati senza lesinare, un corpo d’ispettori scolastici e direttori o direttrici didattiche che avevano nei maestri delle loro circoscrizioni piuttosto dei minori da proteggere o degli allievi da addestrare che non dei dipendenti da comandare o da “tener d’occhio”; […] quel ministro curava la sua scuola come i suoi vecchi avevan curato e accresciuto il loro podere […] E noi, colà, allora, o indigeni o allogeni, o fautori politici od avversari, diventati tutti soggiornando colà per simpatia tutti valtellinesi, tutti, torno a dire, e forse per simpatia, diventati volere o non volere un po’ credariani”.

Spunti per approfondimenti:
https://www.corriere.it/romano/08-04-17/01.spm
https://mondodomani.org/mneme/avg03.htm
http://www.cbt.biblioteche.provincia.tn.it/oseegenius/resource?uri=6176552
Wikipedia

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