Quel giorno io c’ero

Quanto è strano il destino! È difficile, nonostante la mia passione per il ciclismo, che io decida di assistere al passaggio di una tappa del Giro d’Italia. Troppa confusione, troppe ore trascorse sul ciglio della strada a far niente, per poi vedere transitare i corridori tra due ali di folla scalmanata, talvolta senza nemmeno riuscire a riconoscere i propri beniamini.
Eppure il 4 giugno 1994, sul percorso della quattordicesima tappa Lienz-Merano del Giro, io c’ero. Giunsi pedalando in cima al passo Giovo con altri amici ciclisti e iniziai la lunga attesa dei corridori.
Che giornataccia, meteorologicamente parlando. A Merano, dove era posto lo striscione d’arrivo, splendeva il sole, ma agli oltre duemila metri di quota del passo piovigginava e faceva freddo! Ricordo che a un certo punto io e i miei amici, sudati e infreddoliti, ci rifugiammo sotto un gruppo di piccoli alberi, accucciandoci per conservare il poco calore che ci era rimasto in corpo. Ma quando si è giovani basta un niente per trasformare un momento di difficoltà in un’occasione per risate e allegria: al mitico Fabio, un vero e proprio personaggio nel nostro gruppo, venne chissà come in mente l’idea di imitare una gallina e noi altri lo seguimmo, tra urla e schiamazzi che, per quanto poco apprezzati da chi passava da quelle parti, ottennero perlomeno lo scopo di riscaldarci un po’.
Bei tempi, non c’è che dire, quelli in cui bicicletta e amicizie riuscivano a riempire completamente la mia vita.
Poi, con l’approssimarsi dei ciclisti, ognuno scelse il posto di osservazione che riteneva migliore lungo gli ultimi chilometri della salita. Io mi trovai da solo, in corrispondenza di un tornante a poche centinaia di metri dal gran premio della montagna, ad osservare la lunga carovana di auto pubblicitarie e moto delle forze dell’ordine che precedeva il gruppo.
I nomi pesanti di quel tempo erano Berzin (che poi avrebbe vinto il Giro), Indurain, Chiappucci, Bugno, Tonkov, ma ammirevole era stato il grande Moreno Argentin, che si era calato nelle vesti di gregario di lusso per il “biondino” dell’est, scortandolo verso la vittoria finale.
Speravo di vedere i miei beniamini essere protagonisti, su quella impegnativa salita, di una sfida emozionante e di poterli osservare con tutta calma, scrutandone ogni più piccola espressione.
Accadde invece un fatto che spense un po’ i miei entusiasmi. La voce di Radio Corsa, diffusa da una moto dell’organizzazione provvidenzialmente fermatasi al mio fianco, non diede infatti notizie esaltanti. Chiappucci si era dato da fare tutto il giorno, con scatti e attacchi a ripetizione, ma non aveva concluso gran che.
Lo svizzero Richard e il colombiano Buenahora erano al comando e il resto del gruppo si era frantumato lungo l’ascesa del Giovo.
Mi dissi che, forse, sarebbe stato meglio rimanere a casa e gustarmi la tappa spaparanzato sul divano senza tante complicazioni: l’alzataccia mattutina, l’avvicinamento in macchina, il freddo e il ritorno che sarebbe stato sicuramente condizionato dal traffico… ce n’era abbastanza per non essere del tutto contenti di trovarsi lì.
Mi consolai pensando che il mio punto di osservazione fosse quanto di meglio si potesse trovare: ero solo e avrei potuto gustarmi il passaggio dei ciclisti in tutta tranquillità.
Un secondo annuncio mi ridiede un po’ di fiducia: un uomo della Carrera, la squadra di Chiappucci, era scattato e aveva fatto subito il vuoto. Chi poteva essere? Forse il “Diablo” in persona aveva deciso di dare un nuovo scossone alla corsa? Da lui ci si poteva aspettare questo e altro! Attesi ulteriori indicazioni, ma non c’era più tempo.
Richard e Buenahora sfilarono davanti a me con l’espressione stanca di chi non crede più molto al buon esito della propria avventura.
Poco dietro a loro, tra le sirene e i clacson delle ammiraglie, ecco spuntare l’atleta della Carrera. La radio gracchiò il suo nome: Marco Pantani. Uno sconosciuto, mi dissi, uno dei tanti che imbrocca la giornata di grazia e riesce a mettersi in luce, almeno una volta nella sua carriera, e che rientra poi nei ranghi senza più nessuno che si ricordi di lui.
Però… niente male il ragazzo! Pochi capelli, ma tanta grinta. Si avvicinò agile e potente allo stesso tempo, tagliò il tornante con piglio deciso e mi degnò, per un attimo soltanto, di uno sguardo.
Non applaudii, né mostrai particolare entusiasmo per quel passaggio. Guardai il fuggitivo sfilare velocemente verso il gran premio della montagna e tornai ad attendere il passaggio dei nomi importanti.
Ho visto e rivisto mille volte quella scena.
Solamente tre anni dopo, durante la presentazione di un nuovo negozio di sport nella mia città, non avrei trovato il coraggio di avvicinare il mio eroe, tanto da mandare in avanscoperta un’amica per avere un suo autografo! Lei gli si avvicinò e disse: “C’è un mio amico che vorrebbe un tuo autografo, ma ha detto che sei troppo mitico per lui!”. Lui sorridendo esclamò: “Eh, addirittura!”.
Che bel complimento feci, senza nemmeno volerlo, quel giorno al Pirata. Chissà se a lui quell’episodio rimase impresso.
Tornando a quel giorno del 1994, come potevo sapere che avevo assistito al primo vero attacco in un grande giro del mitico Pirata? E che attacco! Perché Pantani non era un campione solo in salita; lo dimostrò nella successiva discesa, durante il quale egli offrì uno spettacolo pauroso e affascinante nello stesso tempo: disteso innaturalmente sulla bici, con il soprasella a piombo sul mozzo della ruota posteriore, il Pirata recuperò i due fuggitivi, li sorpassò e planò verso Merano a oltre 80 chilometri all’ora sull’asfalto bagnato!
Il giorno dopo, nella tappa Merano-Aprica, Pantani avrebbe ottenuto un’altra sonante vittoria, rimettendo in discussione l’esito finale del Giro, e sarebbe divenuto il volto nuovo del ciclismo italiano.
Il resto è storia.
Rimarrà per sempre nella mia memoria quella strana giornata, in cui ebbi il privilegio, senza saperlo, di assistere alla nascita di uno dei più grandi campioni del ciclismo di tutti i tempi.

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