Una vittoria che vale una vita

Mi piace l’immagine del gregario che fatica e serve fedelmente il suo capitano per tutta la carriera e che corona infine il sogno di vincere una corsa. È bello leggere nei suoi occhi la gioia e l’incredulità per quei momenti. Un sogno che si realizza, è proprio il caso di dirlo, e che vale una vita intera…
Dedico questo racconto al mio caro papà, che mi ha insegnato cos’è il ciclismo e cos’è la vita.

38 anni e poco meno di un milione di chilometri macinati ovunque, dal Sudafrica ai tapponi alpini del Giro. Dal caldo soffocante al freddo che in discesa toglie la voglia di tirare i freni, posso dire di averle viste proprio tutte.
Pedalare era un bel gioco quando ero bambino; è diventato pian piano un lavoro che ha assorbito ogni mia energia.
Per la verità sono stati tanti i momenti in cui sono stato tentato di mollare, di farmi una vita “normale”, come tutti. Senza essere un giorno a Parigi, felice e orgoglioso per aver portato a termine almeno una volta il Tour, e quello successivo a Milano, nuovamente e umilmente a disposizione della squadra.
Me lo dicevano sempre i benpensanti: guarda in prospettiva, che cosa ti resterà quando smetterai? In effetti nella mia carriera ho messo da parte ben poco: il mio stipendio non è mai stato migliore di quello di un impiegato e presto mi troverò nella necessità di inventarmi un modo per sbarcare il lunario. Perché io sono un “onesto gregario” e nulla più, conosciuto solo dagli addetti ai lavori, e una volta finito di pedalare non potrò certo contare su sponsorizzazioni o campagne pubblicitarie.
Talvolta capita addirittura che un giornalista un po’ sprovveduto mi scambi per qualcun altro… poco lusinghiero, non c’è che dire. Ma non mi pento di nulla, sono ancora convinto di aver fatto la scelta giusta.
Quanta fatica, però! Ripagata, e nemmeno sempre, da qualche pacca sulla spalla e qualche briciola dei premi che tanti campioni, anche grazie al mio lavoro, hanno potuto racimolare durante la loro carriera. A noi gregari la fatica e il sudore dei primi duecento chilometri. A loro l’allungo decisivo, il traguardo a braccia alzate, le foto e i titoloni sui giornali. E il giorno dopo di nuovo a testa bassa, a “tirare” come un mulo.
Anche oggi, la giornata del “tappone”, quella che potrebbe decidere le sorti del Giro, la tattica è la solita: entrare in qualche fuga per poi aiutare il capitano, se e quando attaccherà e si troverà solo, bisognoso di una ruota amica.
Prima fase portata a termine con successo: sono in un gruppetto di otto, vantaggio di dieci minuti. Manca ancora tanto all’arrivo, eppure io e i miei compagni di (s)ventura siamo già “a tutta”, con la bava alla bocca, quasi il traguardo fosse dietro alla prossima curva.
Strane sensazioni in quei momenti. Mi tornano in mente le gare tra i giovanissimi, così si chiamavano ai miei tempi i bambini che a nemmeno dieci anni si cimentavano su circuiti fatti di due curve e altrettanti rettilinei, tanto brevi da poterli percorrere a piedi con i proverbiali quattro passi. Mi torna in mente anche la disapprovazione di mia madre, quando le dissi che sarei passato al professionismo. Ma in fondo, lei come mio padre, sapeva che stavo andando a fare quello che avevo sempre sognato e che non ci sarebbe stato modo di farmi desistere.
Mi sovvengono poi i tanti tentativi di catalogarmi da parte degli addetti ai lavori: scalatore, scalatore passista, scalatore che con l’avanzare dell’età perde in velocità ma acquista in potenza, scalatore atipico… in breve: in salita me la cavo, ma non sono mai riuscito a vincere una gara che fosse una!
Ci andai vicino qualche anno fa, quando fui ripreso ai 200 metri e dovettero sorreggermi dopo aver tagliato il traguardo, stroncato più dalla rabbia e dalla delusione che dalla fatica.
Ma è acqua passata: tra l’altro credo proprio questo sarà il mio ultimo anno tra i “pro”. Dall’aria che tira, ho capito che in futuro non ci sarà più posto per me in questa squadra e difficilmente risulterò appetibile sul mercato.
“Io me ne andro’ come sono arrivato, in punta di piedi”, scriveva in una sua canzone l’inarrivabile Marco Pantani; ecco, io farò proprio così, lasciando il mio nome, sempre piazzato, in uno numero infinito di classifiche.
Trenta chilometri all’arrivo e ancora nessun segnale dall’ammiraglia. Sfilo un attimo a fondo gruppo e mi sistemo l’auricolare: possibile che non ci siano disposizioni?
Una moto dell’organizzazione ci supera comunicandoci che il nostro vantaggio è calato, ma non come ci aspettavamo: sette minuti sono ancora un bel gruzzolo. Peccato che il traguardo ci aspetti in cima a una salita di 10 km con pendenze da brivido. Ci arriveremo sotto stremati, questo è certo, e da lì in poi ogni momento sarà buono per vedere sopraggiungere il mio capitano. E allora io dovrò mettermi docilmente al suo servizio e fare il ritmo, come si dice in gergo, fin quando la spia del carburante diventerà rosso fuoco. A quel punto non resterà che farmi fagocitare dal gruppo e finire la gara tra gli ultimi, sotto gli sguardi indifferenti del pubblico, già sazio dello spettacolo offerto dai campioni.
Nessun problema, è il mio lavoro.
Ecco, l’auricolare gracchia, finalmente qualche novità.
“Marco, non è giornata” -mi avvertono dall’ammiraglia.
“Fai la tua corsa” -laconico commento che sembra vanificare cento e rotti chilometri di faticaccia.
E ora? Di mollare tutto e rientrare nei ranghi non se ne parla. Una volta raggiunto, mi ritroverei in un attimo a soffrire nelle retrovie. Vale la pena provare. Male che vada, finirà come al solito.
Certo che questo vuol dire farsi altri venti chilometri a tutta, poi c’ è la salita, ovviamente!
Evidentemente “i grandi” si sono presi un giorno di riposo: ogni tanto accade che stringano una sorta di patto di non belligeranza, e per uno dei fuggitivi diventa una festa. Potrei essere io… mi vengono però in mente gli innumerevoli tentativi di questi anni. Mai una volta che sia andata bene.
La montagna ormai è davanti a noi. Chi ha progettato la strada non poteva metterci qualche benedetto tornante, ogni tanto?
Non c’è più accordo tra i compagni di fuga: hanno tutti fiutato la grande occasione e stanno cercando di risparmiare le poche forze rimaste.
Per chi non è dell’ambiente, potrebbe apparire strano come ai tanti gesti di solidarietà di pochi chilometri prima si siano improvvisamente sostituiti quegli sguardi in cagnesco, ma da qui in poi è un tutti contro tutti.
La tensione è al massimo.
Inizia la salita.
Mi sembra di stare bene… mi sembra… dopo centotrenta chilometri in fuga non ci si può fidare più di tanto delle sensazioni. Butto giù un po’ di zuccheri e scambio uno sguardo arrabbiato con il collega che mi trovo casualmente a fianco. È il momento di essere cattivi!
Dal pubblico sento partire urla disumane, fingo di non farci più di tanto caso, ma sotto sotto danno carica. Molte di quelle persone sanno di trovarsi davanti a un gruppo di poveri diavoli che si contendono un momento di notorietà, forse l’unico della loro vita.
Forse mi sto facendo prendere troppo la mano, ma mi metto davanti al gruppo, come mai avrei pensato di poter fare, ad alzare il ritmo. Butto giù due denti con un gesto plateale, un vero e proprio guanto di sfida gettato in faccia agli altri. Il rumore secco della catena che artiglia il pignone è musica per le mie orecchie.
Guardo il ciclocomputer, sono a 23 km/h e la strada sale alla grande! Forzo sulle gambe, dentro di me solo una voce: adesso, o mai più!
Sguardo avanti, apro a fatica un varco nella massa di persone davanti a me.
Non sento più il mio respiro, solo un boato assordante che sembra volermi accompagnare verso la vetta. Mi giunge un messaggio confuso nell’auricolare, mi sembra di capire che il gruppo stia rinvenendo, come spesso accade in queste situazioni, ma sono una furia, mi alzo sui pedali, allungo, mi siedo, mi rialzo, mi dico che sto sprecando troppo, ma un attimo dopo sono di nuovo sui pedali.
La moto della TV mi dedica un primo piano, me lo gusto alla grande, non mi importa se ho la lingua di fuori e sto sbavando come un somaro, che lo vedano tutti, questo è ciclismo!
Adesso ho l’impressione che la massa di gente si richiuda subito dietro di me. Ma come è possibile? Mi giro: sono solo! Più indietro un paio di caschi ondeggianti sbucano ogni tanto tra il pubblico che li accompagna, ma sono lontani.
Le forze raddoppiano, stringo i denti e penso a quanti allenamenti, quanto freddo e quanto caldo in questi anni. Ripetute, sedute in palestra, in pista e in altura, diete ferree… e quanta fatica! È forse oggi è il giorno per dare un senso a tutto questo?
Non capisco più nulla, c’è troppa gente sulla strada, qualcuno mi dice che vincerò, altri mi chiedono chi sono… in quel momento non avrei la lucidità per scovare dentro di me nemmeno il mio nome di battesimo. Sono solo due gambe che stantuffano all’impazzata.
La “cotta”, è quello il rischio più grande: un improvviso calo di energie che non lascia scampo, una crisi che in un paio di chilometri ti fa passare dal paradiso all’inferno, dai titoloni multicolonna a un semplice accenno, da leggere distrattamente, nella cronaca della corsa.
All’improvviso la fiumana di gente si ritira dietro alle transenne e la strada torna libera: recupero un po’ di lucidità, quel tanto che basta per rendermi conto che sono all’ultimo chilometro!
Non è finita, mi dico. Qualcuno può tornare sotto e bruciarmi in volata, sarebbe una mazzata tremenda!
I metri scorrono con il contagocce… 800… 700… possibile che questa salita non molli mai? Se avessi guardato meglio gli ultimi chilometri della tappa! Ma chi se lo aspettava? Di solito queste cose le lascio ai “big”.
Sento la voce dello speaker scandire il mio nome e quello della mia squadra, li ripete più volte … orgoglio immenso… una, due, tre curve, mi sembra di sentire il fiato di qualcuno sul collo, mi giro ma non c’è nessuno, nemmeno le ammiraglie… sono solo, al centro della festa… anzi SIAMO soli, io e la mia bici, adorabile compagna che mi segue docilmente da una vita. Una carezza anche per lei, nascosta, per non dover spiegare a nessuno un sentimento così intimo che pochi potrebbero capire.
È davvero fatta, ecco lo striscione d’arrivo, i fotografi, i giornalisti di mezzo mondo che annotano il mio nome sul taccuino. Scimmiotto un po’ goffamente i grandi, metto in bella vista la scritta dello sponsor e alzo le braccia al cielo fin troppo presto.
Non so come, ma riesco a scorgere anche mio padre, invitato sul palco dalle autorità, con la sua solita espressione tranquilla e distaccata, ma lo conosco e so che dentro scoppia d’orgoglio. Gli devo molto: nella mia famiglia si è sempre mangiato pane e ciclismo, lui è stato il mio primo direttore sportivo, il mitico DS, quando ero ancora bambino. Ne abbiamo fatta di strada da allora!
E pensare che, se avessi dato retta ai benpensanti, ora sarei afflosciato su un’anonima scrivania di un qualunque ufficio, impegnato in un lavoro che mille altri potrebbero fare, a seguire le vicende della gara rimuginando su quello che poteva essere e non è stato.
Invece sono qui, alla grande, a gustarmi da protagonista questo momento, con un sorriso che ora nemmeno la fatica può piegare.
Taglio il traguardo a occhi chiusi con il cuore che trabocca di gioia. So che tra un attimo avrò addosso un mare di persone e che sarà un turbinio di complimenti, di foto e di interviste… ma non me ne importa, vorrei solo che questo momento durasse un’eternità.
Perché vale una vita intera…

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