Uragani in Italia!?

Nell’autunno 2017 l’argomento “uragani” è stato ampiamente (e talvolta inappropriatamente) affrontato dai media. Le notizie dei disastri americani sono giunte anche in Italia, ma il fatto che si trattasse di eventi distanti migliaia di chilometri ci ha permesso di seguire il tutto con un certo distacco. Possiamo però dirci completamente al sicuro? Cerchiamo di capirlo.

Settembre 2017 verrà ricordato per gli uragani che hanno flagellato la costa sud-orientale degli Stati Uniti, Cuba ma soprattutto le Antille, l’arcipelago di isole compreso tra il Venezuela e la Florida. Devastazione e morte è stato il prezzo del passaggio di Harvey, Irma, Maria… nomi che per decenni susciteranno ricordi di rovina e lutti tra gli abitanti delle zone colpite.
Ne abbiamo viste e sentite di tutti i colori, nel vero senso della parola: spettacolari immagini dal satellite, webcam live, velivoli che si gettano nell’occhio del ciclone, social carichi di foto impressionanti e non ultime le immancabili considerazioni sul peso che l’uomo ha nel cambiamento climatico. I maggiori esperti del settore hanno snocciolato dati, fornito spiegazioni e azzardato previsioni sull’aumento di questi fenomeni, ma guardando la cosa da un altro punto di vista potremmo chiederci: eventi tanto potenti possono avere ripercussioni sul nostro continente e sull’Italia in particolare? La risposta è… ni!
Normalmente, dopo aver seminato distruzione sulla costa orientale del continente americano, gli uragani atlantici vanno a morire nel cosiddetto “cimitero degli uragani”, al largo del Canada. Una piccola parte, però, sfugge a questo destino e punta l’Europa grazie all’aggancio operato dalla corrente a getto che soffia alle latitudini intermedie. La corrente a getto (jet stream) viaggia in quota da ovest verso est a velocità tali che un uragano può raggiungere le coste europee in meno di due giorni; in questo intervallo di tempo esso deve però attraversare 4-5.000 chilometri di oceano la cui temperatura superficiale non è sufficiente a mantenerne la vitalità (si tratta di valori sui 10-15 gradi). Caratteristica di un uragano tropicale, infatti, è quello di avere un cuore (core) caldo e il transito su superfici fredde (o, meglio, “meno calde”) porta inevitabilmente al suo indebolimento.
È ciò che è accaduto all’uragano Maria, che nel Mar dei Caraibi aveva raggiunto la categoria 5 (il massimo) con raffiche (stimate) fino a 280km/h, un incredibile minimo di pressione di 908 ettopascal (hPa) e danni enormi (78 vittime). Dopo aver sfiorato la East Coast statunitense Maria ha proseguito verso Nord e ha quindi virato verso est, raggiungendo l’Europa come una normale depressione extratropicale (di quelle che si dipartono dal ciclone d’Islanda, per intenderci) portando nubi e “normali” piogge sull’Europa centrale. Gli ultimi rimasugli hanno interessato il Centro-Nord Italia il 3 ottobre sotto forma di una modesta perturbazione.
Vista la fine poco gloriosa di Maria, possiamo ritenerci al sicuro? Non del tutto, perché i più intrepidi tra questi uragani riescono a mantenere, nonostante l’attraversamento dell’Atlantico, una potenza sufficiente a portare scompiglio sulle coste occidentali dell’Europa con venti superiori ai 100/h (un uragano di categoria 1, il meno intenso, causa raffiche tra 130 e 150 km/h). Un esempio si ebbe nell’ottobre 2014, quando l’uragano Gonzalo toccò il grado 4 su 5 in prossimità delle Bermuda, virò verso nord e quindi verso est attraversando in meno di 48 ore tutto l’Atlantico e, pur declassato a ciclone extratropicale, provocò alcune vittime in Gran Bretagna. Il suo tragitto venne infine deviato dalla configurazione barica presente sull’Europa (alta pressione su Spagna e Francia) verso l’Italia, dove pilotò un intenso fronte freddo. Esso causò molti danni sulla Penisola, perché i giorni precedenti erano stati caratterizzati da un clima quasi estivo; il contrasto generò quindi eventi molto forti. Tra il 21 e il 23 ottobre in Alto Adige si verificarono temporali, nevicate abbondanti a quote basse per la stagione e venti molto forti, fino a 125 km/h in montagna. Ma è dove mancò la protezione delle Alpi che l’ex-uragano diede il meglio di sé: ricordiamo onde di oltre 16 metri misurate ad Alghero, trombe marine sulle coste romagnole e una spettacolare tempesta di sabbia sul lungomare di Pescara.

Situazione nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 2014. Fonte: Wetterzentrale.de

Il percorso seguito da Gonzalo, dall’Atlantico alle coste inglesi passando per gli States (Google maps)

Risalendo a tempi meno recenti possiamo citare Floyd, un uragano atlantico di smisurate dimensioni, che il 13 Settembre 1993 raggiunse la Bretagna a uno stadio intermedio tra tempesta tropicale e uragano di categoria 1. Da non dimenticare inoltre Mitch, uno dei più potenti uragani mai osservati, portatore nel 1998 di lutti e disastri sulle coste atlantiche del continente americano, che andò a spegnersi tra Islanda e Gran Bretagna dopo aver causato vittime e danni.

Mitch in avvicinamento alle coste britanniche. Fonte: Wetterzentrale.de

Il discorso non finisce certo qui, perché esistono anche uragani che, formatisi al largo delle coste portoghesi a latitudini ben più settentrionali del consueto (quindi oltre il 15° parallelo), vengono agganciati dalle correnti atlantiche e sospinti direttamente sull’Europa senza fare la “trafila” americana. Alcuni di questi cicloni, seppur meno estesi e potenti di quelli che si scatenano tra l’area caraibica e le coste orientali degli USA, sono riusciti ad apportare violente fasi di maltempo tra le Azzorre, il Portogallo, la Galizia, le coste francesi e le Isole Britanniche. Come detto, generalmente gli uragani nascono sopra acque superficiali molto calde, con valori intorno superiori a 26-27 gradi; fuori dalle zone tropicali essi si formano solo raramente. Eppure questo accade, talvolta con modalità eccezionali, come la tempesta tropicale “Grace”, che nacque su acque con temperatura inferiore ai 25°C e mantenne un cuore caldo su acque relativamente fredde (intorno ai 20°C) prima di dissiparsi davanti alle coste lusitane. Tra i molti uragani “europei” osservati da quando è nata la meteorologia un posto di primo piano occupa inevitabilmente Ophelia, che nell’ottobre 2017 ha eccitato gli animi dei meteoappassionati dando sfoggio di sé per giorni e giorni sull’Atlantico e approdando poi sulle coste francesi e britanniche, dove ha provocato ingenti danni, decine di morti e centinaia di feriti. Tra gli eventi più impressionanti, oltre ovviamente alle forti piogge, ricordiamo il risucchio di sabbia desertica trasportata fin oltre il Circolo polare artico (notevole il cielo rosso sulle isole Fær Øer), gli incendi a causa del forte vento in Portogallo e le raffiche ben oltre i 150/h sulle Isole britanniche.

Il “brodo” caldo da cui Ophelia ha potuto trarre la sua energia! Fonte: https://www.noaa.gov/climate

Ophelia, che trottolina! Fonte: Wetterzentrale.de

Queste spettacolari immagini dal satellite hanno tenuto incollati al PC milioni di meteoappassionati!

Il “landfall” di Ophelia sulle coste irlandesi. Fonte: https://www.noaa.gov/climate

Ma non è finita qui: anche il Mediterraneo può sfornare uragani! Per evidenti motivi (temperatura ed estensione del mare) essi hanno dimensione e potenza minore rispetto ai “cugini” atlantici (si parla di diametri di 200-400 km e venti fino a 150/h, tipici di un uragano di prima categoria), ma sono comunque in grado di causare forti disagi. I cicloni mediterranei (ben diverse dai cicloni extratropicali associati alle normali perturbazioni che scorrono da ovest a est portando piogge e nevicate in Europa) vengono denominati TLC (Tropical Like Cyclone) e sono classificati in base alla velocità media del vento e alla pressione centrale: “Mediterranean Tropical Depression” quando la velocità del vento medio è inferiore ai 63 km/h, “Mediterranean Tropical Storm” quando il vento si aggira fra i 64 e 119 km/h e i rari “Medicane o Mediterranean Hurricane” (veri e propri uragani di categoria 1) quando il vento medio supera la soglia dei 119 km/h e la pressione scende fino a 975 ettopascal (hpa). I TLC si formano spesso nella stagione autunnale, ovvero nel periodo dell’anno in cui le temperature delle acque superficiali raggiungono i massimi valori: da 26 gradi a 28 gradi sullo Ionio, sul basso Tirreno, sul canale di Sicilia, sul mar Libico, sul mar di Sardegna e sull’Adriatico centrale. Con il mare così caldo, i primi transiti di masse d’aria fresche e instabili di settembre e ottobre divengono delle fucine di grossi nuclei temporaleschi che possono evolvere in sistemi ciclonici a cuore caldo simil-tropicali. Più rari i casi in cui dei sistemi a cuore freddo, come un semplice CUT-OFF in quota (cut-off: processo per il quale una depressione minore resta isolata da quella principale) o un vecchio ciclone extratropicale, riescono a tramutarsi in sistemi a cuore caldo, acquistando caratteristiche di TLC. Durante questa evoluzione la struttura da baroclina (minimo in quota non coincidente con quello al suolo) diviene barotropica, il ciclone diventa autonomo attingendo energia dal calore latente fornito dal mare. La convenzione, esaltata al massimo se in quota è presente aria fredda e secca, esplode nel centro del sistema, i venti si intensificano e si forma il tipico “occhio”.
Come detto, i mesi più adatti al verificarsi dei cicloni mediterranei sono quelli autunnali, ma vedremo che si sono avuti degli uragani mediterranei anche in altri periodi tra luglio e gennaio: l’importante è la presenza di aria calda e molto umida nei bassi strati con forte gradiente termico verticale (ovvero accentuato scarto termico tra suolo e quota). Tra gli esempi recenti di Medicane va citata Cornelia, che nacque come “tropical storm” a sud delle Isole Baleari fra il 6 e il 7 ottobre 1996, attraversò il sud della Sardegna e il giorno 8 raggiunse il Tirreno centro-meridionale, dove si intensificò divenendo un vero e proprio Medicane. Cornelia si accanì soprattutto sulle isole Eolie, devastando l’arcipelago con venti vicini ai 150 km/h, ma i suoi effetti si sentirono anche sul resto d’Italia, dato che il richiamo di correnti meridionali provocò intense precipitazioni sulle zone sopravento in Piemonte, Emilia, Calabria e Messinese. Poco più di un anno prima, tra il 14 e il 17 gennaio 1995, il medicane Celeno si era formato in mezzo al Mar Ionio, fra Grecia e Sicilia. Una nave di ricerca trovatasi nell’occhio misurò raffiche di 135-140 km/h, degni di un uragano di prima categoria, mentre il barometro segnò un valore di 975 hpa.

L’uragano Celeno del gennaio 1995

Nel Dicembre 2005 Zeo si formò tra Canale di Sicilia e mar Libico, sferzò la Sicilia con forti venti orientali e piogge alluvionali nonché alcune vittime, sfiorò le coste libiche e l’isola di Creta per poi andare a spegnersi come tempesta tropicale lungo le coste dell’Asia minore.
Va detto che gli uragani si formano a causa della rotazione terrestre, che imprime a qualunque oggetto in movimento (in questo caso le correnti che “puntano” il minimo di pressione) una deviazione; nell’emisfero boreale questa forza (detta di Coriolis, in realtà solo apparente, ma questo andrebbe trattato in un articolo a parte!), determina una rotazione in senso antiorario di tutte le basse pressioni.
In conclusione possiamo affermare che se la temperatura media del globo manterrà questa corsa al rialzo anche noi europei dovremo forse fare l’abitudine a queste tremende sfuriate della Natura!
EDIT: neanche un mese dopo la pubblicazione di questo pezzo ecco nel novembre 2017 un altro TLC sul mar Jonio! Questa volta si è trattato di una classica depressione extratropicale (due, per la verità, di cui una spentasi sull’Adriatico) generatasi in seguito all’ingresso di aria fredda artica sull’Italia. Tale depressione, una volta sganciatasi dalla corrente a getto in quota, si è trasformata in un ciclone a cuore caldo (warm-core subtropical cyclone) alimentato dal continuo rigenerarsi di strutture temporalesche al suo interno. Il “motore”, come già detto, è l’incessante condensazione di vapore acqueo proveniente dalle acque calde del Mediterraneo. Niente Medicane, in questo caso: il sistema, battezzato “Numa”, si è fermato allo stadio di “Mediterranean Tropical Depression” spostandosi abbastanza rapidamente sulla Grecia, dove ha causato danni e allagamenti.

Numa in azione sullo Jonio a metà novembre 2017.
Fonte: https://lance-modis.eosdis.nasa.gov/imagery/subsets/?subset=AERONET_ETNA

Un’altra bella immagine di Numa, che evidenzia come la sua presenza influisca sulle condizioni meteo di un’area molto vasta. Fonte: SAT24.com

Carta estrapolata da GFS (temperature a circa 1500 metri di altezza) che evidenzia il cuore caldo del ciclone Numa

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